La correlazione tra fertilità e produzione lattea è un argomento ampiamente dibattuto, non solo in tempi recenti ma anche durante i decenni passati; ad esempio il Minnesota Dairy Bulletin faceva riferimento esplicito all’argomento già nel 1929. Attualmente produzione lattea e performances riproduttive sono considerate il “barometro” del successo economico di un’azienda.
Negli ultimi quarant’anni la produzione lattea per singola vacca dei Paesi industrializzati è aumentata in maniera notevole, negli Stati Uniti ad esempio si è passati dai 59 quintali del 1970 ai 96 quintali del 2010. A partire dall’inizio degli anni ’80, di pari passo con l’incremento della produttività, si è diffusa l’idea che vi sia un correlazione negativa tra lattazione e fertilità ovvero il prezzo da pagare per una maggior produzione lattea è il calo della fertilità. Nonostante la percezione comune negli anni si sono moltiplicati gli studi che hanno evidenziato una correlazione positiva tra questi due indicatori; dove le vacche con maggior produzione lattea sono risultate le più inclini ad essere ingravidate e dove gli allevamenti più produttivi sono stati quelli che hanno riportato minori problemi legati alla sfera riproduttiva. Tali risultati sono stati confermati anche da un recente studio USA che non ha evidenziato ripercussioni negative sulla produzione di latte in vacche selezionate anche per la loro elevata fertilità.
Negli USA, a partire dal 1994, è stata implementata la Vita Produttiva (un incremento di 1 rappresenta 1 mese in più di carriera delle figlie) nei parametri di valutazione genetica dei tori di razza frisona e jersey, questa scelta ha portato ad un incremento del Tasso Fertilità Figlie (anch’esso inserito come parametro a partire dal 2003) e, inoltre, sembra aver portato ad un’inversione del trend negativo sul tasso di gravidanza causato nei decenni precedenti dalla selezione genetica. In definitiva l’uso tori con un Tasso Fertilità Figlie migliore hanno portato alla nascita di bovine con ottime performances riproduttive e una carriera più lunga.
Negli ultimi decenni si sono verificati una serie di eventi che potrebbero aver portato ad un calo complessivo della fertilità negli USA, a prescindere dalla produzione lattea:
Il numero di allevamenti si è ridotto da 329.680 nel 1980 a 131.509 nel 1992 fino a 53.127 del 2010, con un conseguente incremento vistoso degli animali che devono essere seguiti da un singolo operatore.
Sono aumentate le dimensioni degli allevamenti a partire dal 1970 (da 18 a 172 vacche).
Si è verificato un incremento delle vacche in lattazione per singola azienda; nel 1980 solo il 4% aveva più di 100 capi in lattazione mentre nel 2009 questa percentuale è salita al 23%.
Le aziende con oltre 100 bovine in lattazione forniscono l’83,6% del latte prodotto in totale (era il 33% nel 1980).
Le aziende con oltre 500 bovine in lattazione rappresentano il 5,1% del totale (nel 1980 quasi non esistevano) e producono il 60% del latte USA.
Le strategie per la riproduzione sono cambiate con il passaggio pressoché totale all’inseminazione artificiale e la diffusione della sincronizzazione degli estri (43% degli allevamenti).
Le forme di allevamento dove le vacche sono stabulate per la maggior parte del tempo su pavimentazioni dure sono diventate di moda.
Numerosi eventi hanno quindi accompagnato lo sviluppo del settore negli ultimi quarant’anni che potrebbero aver influenzato negativamente i risultati riproduttivi al di là del presunto calo della fertilità in relazione all’aumento della secrezione lattea.
La produzione lattea
Ai fini di quantificare la produzione lattea sono possibili differenti approcci quali: produzione a 60 o 90 giorni standard; produzione corretta in base ai componenti (grasso e proteina); produzione a 305 giorni standard o a 305 giorni applicando la correzione ME (Mature Equivalent).
La produzione misurata solo nella prima parte della lattazione (a 60 o 90 giorni) può rivelarsi utile per definire l’influenza immediata della lattazione sull’inseminazione successiva, tuttavia presenta il limite di non raffigurare, in maniera completa, le capacità produttive di una bovina. Utilizzare la produzione corretta in base ai componenti sarebbe più appropriato poiché essa tiene conto dei principali componenti energetici presenti nel latte.
La produzione misurata a 305 giorni standard fornice un quadro accurato dell’intera lattazione, tuttavia non analizza le perturbazioni metaboliche a cui la bovina va in contro durate la riproduzione e non tiene conto delle diverse necessità di primipare e pluripare; le bovine al primo parto non hanno ancora completato lo sviluppo fisico e necessitano di spendere una parte di energia per la crescita. la correzione della produzione a 305 giorni in base al ME permette di appianare le differenze tra numero di lattazioni, produttività giornaliera, età del primo parto, mese di parto e durata della lattazione; inoltre fornisce uno strumento utile per il confronto della produzione in regioni e aree diverse.
In linea generale quando si valuta la produzione lattea è opportuno tener conto anche del contesto geografico in cui si opera, lo stesso risultato in termini quantitativi potrebbe essere considerato eccellente, modesto o scarso a seconda delle diverse realtà zootecniche. Ai fini di valutare correttamente la produttività devono anche essere considerati anche altri fattori come la razza delle bovine e la qualità della nutrizione.
Le performances riproduttive
La presenza di numerosi indicatori legati alla riproduzione talvolta può creare delle difficoltà nella corretta identificazione di un problema di fertilità. Storicamente gli studi genetici hanno fornito una serie di parametri per la misura delle performances riproduttive quali: tasso di concepimento; numero d’interventi per concepimento; giorni aperti e intervallo interparto. Tali indicatori tuttavia sono subordinati alle scelte gestionali, scelte che a volte possono addirittura soverchiare gli “imperativi” biologici. Ad esempio il tasso di concepimento varia in base ai giorni di lattazione in cui si effettua l’intervento sia questo dettato da un calendario programmatico o da identificazione dei calori (a sua volta influenzata dal metodo impegato).
Alla ricerca di un nuovo approccio
Alla luce di quanto detto possiamo affermare che i fattori confondenti siano numerosi, tuttavia quello che manca sono nuovi strumenti per approcciarsi al problema. Le università del Kansas e del Michigan hanno dato inizio ad un progetto di ricerca atto a identificare le risposte alle problematiche fin ora poste associando alla ricerca sul campo l’impiego di sofisticati modelli matematici. I risultati sino ad ora sono stati decisamente interessanti, poiché se da un lato hanno evidenziato un’associazione negativa tra produzione lattea e performances riproduttive a livello di allevamento dall’altro hanno rilevato un trend diametralmente opposto per quanto riguarda la singola bovina! Una tematica che merita certamente un futuro approfondimento.
Fonte: Jeff Stevenson – Is fertility really declining? – Hoard’s Dairyman (Nov. 2011)
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