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Furto d’identità delle produzioni tipiche italiane

In un recentissimo articolo pubblicato da Jamie Castaneda su Hoard’s Dairyman si affronta il tema della denominazione dei formaggi dal punto di vista USA con un atteggiamento molto stile “cow boy”. L’introduzione all’articolo è già una di quelle che fanno salire la pressione, infatti si dice: “There is an effort by the European Union (EU) and companies throughout Europe to confiscate the common names of cheeses”, ovvero che noi europei vogliamo “sequestrare/confiscare” il nome comune dei formaggi, ovviamente dimenticando tutta la storia alle spalle di questi, e che non sono affatto nomi comuni.


In EU come in USA si pensa che i problemi riguardino solo Parmigiano o Feta, ma l’autore sottolinea che sono decine i nomi a rischio essendoci anche Asiago, Romano, Gruyere etc. Nomi per l’autore “common”, vale a dire comuni e che non identificano invece le radici storiche e tecnologiche delle produzioni. Il problema è, ovviamente, economico. Infatti se i produttori americani non potranno usare tali nomi, rischiano di perdere un mercato da 5 miliardi di $ all’anno e di 59 miliardi di $ in 10 anni. Per gli USA questa è una seria minaccia per la competitività nel settore della produzione del formaggio. Cita a questo proposito l’intervento di Nicola Bertinelli (Consorzio Parmigiano Reggiano) in difesa della denominazione dei formaggi e della lotta all’”Italian sounding” liquidandola come una mera lotta per conquistare il mercato americano. La richiesta di Bertinelli di regolamenti USA più chiari e trasparenti è secondo l’autore un tentativo di eradicare la produzione di prodotti chiave dal mercato americano (“is a direct attempt to eradicate U.S. sales of key products”) e non solo proteggere l’esportazione. Le aziende del settore in USA hanno formato nel 2012 un Consortium for Common Food Names (CCFN), per proteggere nomi come Munster, Provolone o Mozzarella in mercati come Giappone e Messico, oltre che USA, a loro dire con successo. Non riescono però a capire come l’EU continui in una “growing extremist strategy aimed at reducing competition from the United States and all other non-EU nations”. Quindi secondo loro il tentativo europeo di salvaguardare le nostre produzioni tipiche è paragonabile ad un attacco estremista all’economia americana. In effetti gli USA hanno creato un mercato in Messico (il loro maggiore importatore) per formaggi “tipicamente americani” come “Parmesan, Mozzarella, Asiago, and Gorgonzola”, ma la cattiva EU ha lavorato per chiudere questa attività. Fortunamente (per noi) il governo messicano ha garantito solo a noi italiani l’uso di termini come Asiago e Gorgonzola attraverso “an obscure geographical indications (GI) process”, vale a dire un “oscuro preocesso per definire l’indicazione geografica”. Questo rappresenta un pericolo molto grande se il governo messicano “si inchinerà” ai voleri dell’EU. Sfortunatamente (per noi) il Giappone manterrà i termini come Romano, Grana, e Parmesan, come generici, impedendo il “monopolio” dell’EU. L’articolo si chiude con una “chiamata alle armi” da parte dei produttori americani a difesa delle tipiche produzioni locali americane come Parmesan, Feta, Asiago, Gorgonzola etc., dimostrando non solo la profonda ignoranza nell’ambito delle produzione casearie, ma anche l’altrattanto profonda attenzione agli aspetti economici. La buona notizia (per loro) è che la CCFN è stata riconosciuta come la principale organizzazione che combatte gli “abusi” dell’EU a proposito dell’indicazione geografica (“EU’s GI abuses”). Lo scopo è quello di influenzare i regolamenti per le definizioni geografiche in modo che le industrie lattiero-casearie possano usare i nomi dei formaggi come generici e quindi invadere il mondo con buona pace delle centinaia di anni di tradizioni e del lavoro di affinamento portato avanti in Europa da generazioni e che hanno creato produzioni di eccellenza. Crediamo che la libera concorrenza sia un diritto sacrosanto ma questo diritto, come tutti i diritti, si ferma quando va a ledere l’altrettanto ineludibile diritto di salvaguardare la tradizione di una produzione alimentare che non è solo un nome, ma è soprattutto un sapore e una tradizione spesso millenaria. Probabilmente se l’autore avesse avuto un’educazione al gusto e alla storia di questi prodotti, e li avesse assaggiati, non avrebbe scritto certe cose.

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